Scriviamo spesso di libertà di
panorama, un
argomento ricorrente di queste pagine da quando abbiamo
cominciato a occuparci dei numerosi
problemi posti dalla normativa italiana a Wiki Loves Monuments
e in generale alla
diffusione della conoscenza sul patrimonio culturale in Italia.
Oggi riprendiamo alcune riflessioni
del professore
Daniele Manacorda, che offre un punto di vista alternativo.
Abbiamo anche pubblicato un’intervista di Marco
Maiocco al professor Manacorda sul medesimo tema.
Innanzitutto Manacorda inquadra l’importanza della
questione delle riproduzioni, tutt’altro che secondaria nella
generale politica di gestione dei beni culturali
in Italia:
In questo elenco di follie che l’occhiuta gestione del
“mercato delle riproduzioni” comporterebbe occupa un
posto del tutto particolare la questione della libertà di
panorama, ovvero del diritto di fotografare e riprodurre opere
esposte al pubblico dominio. Più che surreale, marziana (nel
senso di priva dei caratteri propri della specie homo sapiens),
è l’idea che la libertà di panorama possa essere
negata per manufatti storici, non importa di quale qualità,
risalenti a secoli e secoli addietro, oggetto magari per
generazioni delle più raffinate raffigurazioni da parte di
artisti, viandanti, pellegrini e turisti e oggi preclusi alla
pubblica documentazione in nome del combinato disposto di tre
articoli-mostro del Decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42,
altrimenti detto Codice Urbani.
Manacorda si rifà quindi alla migliore accademia, come gli
scritti del professor
Giorgio Resta:
Resta 2013 cita in proposito un limpido pensiero di A.
Rouast risalente al lontano 1919: «Un paesaggio appartiene a
tutti; ognuno può non soltanto contemplarlo liberamente, ma
anche disegnarlo, fotografarlo e riprodurre il proprio disegno o
negativo». Oggi – commenta Resta – assistiamo
invece ad «una crescente espansione delle prerogative
dominicali a detrimento della libertà di informazione e di
iniziativa economica dei terzi».
No, non è attraverso cavilli giuridici capziosi che
sarà possibile arginare la libera riproduzione dei beni
esposti al pubblico dominio senza coartare la libera espressione
del pensiero.
Basterebbe rifarsi alle più sensate prese di posizione
del Governo Prodi, che nel lontano 2008 aveva considerato lecito
fotografare per qualunque scopo anche commerciale i beni esposti
alla pubblica vista distinguendo «tra beni culturali visibili
esternamente dal quivis de populo e beni culturali collocati,
invece, all’interno dei monumenti»
Purtroppo anche queste interpretazioni hanno incontrato delle
resistenze da parte di persone che adducono ragioni economiche, che
però sono gravide di conseguenze:
Come lascio valutare quale ideologia si celi, magari
inavvertitamente, dietro a queste posizioni [contrarie alla
libertà di panorama]: dove si decide se un introito valga
più o meno di una libera manifestazione del pensiero? chi
decide, in altre parole, quale sia il “bene degli
altri”? se è già problematico attribuire in toto
alla politica, attraverso le istituzioni pubbliche, un simile
delicatissimo compito, quanto improprio sarebbe affidarlo alle
pratiche della Pubblica Amministrazione! Il guaio è che
attorno a questa sindrome del balzello (che dovrebbe
paradossalmente ridurre la pressione fiscale!) [chi sostiene
l’attuale regime] costruisce un castello di organi e
procedure ispirato ad una pervasiva cultura del controllo, che
– sia detto per inciso – la Pubblica Amministrazione
dovrebbe proficuamente esercitare in molti campi delle
attività economiche e sociali, ma che sarebbe altamente
raccomandabile tenere lontana dal comparto culturale. Un occhiuto
Grande Fratello dovrebbe dunque garantire la collettività che
essa stessa non si stia attribuendo la libertà di usare del
proprio patrimonio culturale. Un esercito di controllori dovrebbe
gestire una mastodontica operazione di spionaggio pubblico pronti a
carpire scatti indebiti e, peggio ancora, usi indebiti di ciò
che è di tutti. Dov’è lo scandalo? la domanda
giusta da porsi sembra a me infatti tutt’altra: chi e che
cosa vieterebbe l’uso del patrimonio culturale a fini di
promozione commerciale? e ancora: perché dovremmo vietarlo? Se
la risposta è per “la dignità del
patrimonio”, ne accennerò in seguito (cfr. infra); se
non è questione di dignità, ma di tutela di un presunto
monopolio in capo al proprietario del bene materiale anche del
valore immateriale ad esso associato, almeno non usiamo argomenti
ideologici (dignità e quant’altro) e diciamo, pane al
pane e vino al vino, che vogliamo uno stato
“bottegaio”, che si misura nell’arengo economico
su di un piano di pura concorrenza commerciale di basso profilo,
che non vede gli altri aspetti costituzionali del tema, e risolve
la questione nei termini di quella gestione diretta monopolistica
[…].
Quindi ben venga la libera utilizzazione da parte di
privati, imprese, associazioni con o senza scopo di lucro di ogni
sorta di immagine liberamente tratta dal nostro patrimonio
culturale, per il quale quei segni costituiranno un possibile
volano pubblicitario di ulteriore diffusione di conoscenza e quindi
di apprezzamento del brand Italia. E ben venga naturalmente che
anche singole istituzioni culturali si dotino di marchi registrati
[…]: una opportunità concessa loro dal Codice della
proprietà industriale, che è legittimo domandarsi quanto
possa essere interpretata quale una riserva esclusiva di utilizzo
della fonte ispiratrice del segno.
Secondo Manacorda, una chiave fondamentale per risolvere la
questione è ricordarsi della differenza fra beni rivali e ben
non rivali:
Come si esce da questo garbuglio? Sembra abbastanza evidente
che il problema principale sia posto proprio da quegli articoli del
Codice che normano le concessioni. Abbiamo visto la incoerenza
dell’art. 108. […] Beni materiali e beni immateriali
sono quindi programmaticamente mescolati e confusi […]. Le
riproduzioni di immagini attengono infatti alla concessione
d’uso di un bene immateriale, mentre le riprese televisive
comportano comunque anche l’uso degli spazi […] usi,
che in un caso (quello delle concessioni d’uso degli spazi
così come dei beni materiali del patrimonio) sono
indubbiamente rivali, mentre per quanto riguarda le riproduzioni di
immagini sono palesemente non rivali (Maurizio Franzini 2011). In
altri termini, mentre cedendo l’uso di uno spazio o di altro
bene pertinente a un istituto o a un luogo della cultura, se ne
impedisce contestualmente il godimento da parte di altri possibili
fruitori, e ciò giustifica il titolo oneroso della
concessione; nel caso delle riproduzioni di immagini, l’uso
da parte di un singolo, di un ente, di una impresa, di una
comunità non ne impedisce in alcun modo il godimento
contestuale da parte di altri, dal momento che il bene è
posto, nella sua immaterialità, a disposizione di
tutti.
La distinzione concettuale e operativa tra usi rivali e non
rivali dei beni culturali di proprietà pubblica potrebbe
quindi portare un po’ di luce e di sereno in un campo dove
l’economia della bottega prevale sulla considerazione
più generale del bene pubblico in presenza di beni comuni
immateriali. In altri termini, la condizione di non rivalità
riconosciuta ai beni immateriali rappresentati dalle immagini del
patrimonio culturale pubblico li esclude di fatto dal mercato,
mentre è giusto che siano sottoposti al mercato quei beni il
cui uso rivale li assimila di fatto a beni privati, ma di
proprietà e di gestione pubblica. La liberalizzazione generale
e completa dell’uso anche commerciale delle immagini darebbe
loro lo statuto di beni pubblici non escludibili, sottratti al
mercato, e quindi anche all’uso improprio che potrebbe
esserne fatto dai giganti della comunicazione globalizzata. E
restituirebbe alla capacità delle comunità di produrre
innovazione, informazione e cultura attraverso di essi, con
generale giovamento del livello della produzione e diffusione
culturale, da un lato, e della creazione di lavoro e ricchezza con
le relative ricadute positive di carattere fiscale sulla finanza
pubblica.
Si inserisce qui un aspetto, quello della dignità del
patrimonio, che non possiamo approfondire in questa sede, ma che
tende a confondersi con “la destinazione culturale del
bene”, prevista dall’art. 106, comma 1 del Codice
Urbani, oggetto di ampia discrezionalità. È evidente che
il testo di legge fa riferimento a usi materiali dei beni, di
carattere degradante o tali da «recare pregiudizio alla loro
conservazione», e certamente non all’uso della loro
componente immateriale. La tutela del decoro, «un concetto
giuridico indeterminato» (Casini 2018), è un tema assai
scivoloso. E ancor più foriero di ambiguità quando
utilizzato «nella esigenza di assicurare una forma di
“controllo” sull’originalità, sulla
autenticità e sulla “veridicità” delle cose
che costituiscono il patrimonio culturale» (ibidem). Basti
fare un veloce riferimento al dibattito sullo statuto della copia e
del falso, per rendersi conto che, almeno in questo campo, lo Stato
potrebbe accontentarsi di garantire l’autenticità dei
beni in sua proprietà, senza doversi accollare anche la ben
più ardua fatica di “produrre certezza”.
Infine, Manacorda ribadisce i rischi per beni costituzionali
superiori quali la libertà di espressione (art.
21) e insegnamento (art.
33) e la promozione della cultura (art.
9), se dovessero essere limitati da meri provvedimenti
amministrativi del ministero:
[In Italia] non mancano le prese di posizione che
giustificano le restrizioni alla libertà di espressione in
nome di un presunto diritto (di chi? in base a quali principi?) ad
evitare la “banalizzazione” del patrimonio culturale
per assicurarne “un uso corretto”. Ma chi giudica se
l’uso di una immagine sia o non sia consono? La politica,
come in uno stato etico autoritario? L’amministrazione, come
in uno stato tecnocraticamente occhiuto? La magistratura, in nome
di un “comune senso del pudore” (Art. 527 Codice
Penale)? Sperabilmente né l’una né l’altra
né l’altra ancora […] oltre un secolo fa
l’amministrazione statale della tutela ha ideato e diretto lo
smantellamento del barocco da tutte le chiese del Regno perché
quello stile non era “degno” e che Gian Lorenzo Bernini
voleva demolire il mausoleo di Cecilia Metella per trarre almeno le
pietre da quella vecchia rovina non “degna” di stare in
piedi? Quando nel 1919 Marcel Duchamp mise i baffi con tanto di
volgare didascalia alla Gioconda (no: all’immagine della
Gioconda!) [chi difende il codice dei beni culturali]
l’avrebbe forse deferito ai tribunali della Francia
repubblicana? “Ma quella è un’opera
d’arte!”. Già. E chi decide che cosa sia o non
sia, oggi – e domani chissà? – un’opera
d’arte? quale Agenzia, ente terzo o organo interno, si
assumerà, e su quali basi giuridiche, questo immenso ingrato
compito?
Mi limito solo a registrare quanto attuale sia un radicale
ripensamento del ruolo della gestione pubblica in questo campo, che
– assegnato dalla Costituzione alla Repubblica e non allo
Stato – nella formulazione del Codice Urbani ha posto in capo
addirittura al solo Ministero dei Beni Culturali alcune prerogative
di esclusività, che vanno ben al di là del campo della
tutela per occupare, nella prassi, anche quelli della
valorizzazione e della gestione e, nella lettera
dell’articolato, addirittura quello della ricerca, con
risvolti di palese incostituzionalità che più prima che
poi andranno pur risolti.
Nell’Immagine: Torre di Satriano, foto in concorso Wiki
Loves Monuments 2019 di Michele Luongo, licenza CC BY SA, via
Wikimedia Commons